Elvio Carrieri – Poveri a noi – Edizioni Ventanas


Elvio Carrieri – “Poveri a noi” – edizioni Ventanas

Il libro di Elvio ha un filo sotterraneo – che si nutre di un reciproco trauma (fisico e psicologico) che sotto traccia lega le esistenze di Libero e Plinio. Un evento traumatico mai realmente superato e che – ciascuno per il suo ruolo – ci si ostina a rimuovere. Libero conduce la sua vita in ombra, sceglie persino di insegnare in un carcere – nascosto lì invece che in una scuola statale – da cittadino stizzito e umorale in una Bari popolata da una corte di personaggi coloriti e intrallazzati, come in una giungla grigia creata da palazzinari. Una Bari di cui disprezza il degrado architettonico e urbanistico, specchio della sua anima corrotta, affaristica e accomodante. La sua intransigenza alla ricerca di una purezza ostentata è forse anche il modo di auto-giustificare ed espiare il suo “peccato originale”, il senso di colpa che in fondo è pure alla base del perdurare della sua amicizia – tra l’ironico e il surreale a tratti – con Plinio. E tutti i suoi rapporti sono improntati alla dissonanza e all’antagonismo. Quelli con la città, con i cozzali del centro, con la sua ragazza Letizia – la “paesana” ben centrata nel suo ruolo professionale e nella sua esistenza, con quel suo inspiegabile entusiasmo per ogni piccola cosa. Non meno ostinato, sprezzante e complesso si rivela il rapporto con gli adulti in genere e in particolare con l’inesistente figura di un padre narcisista e imbarazzante (la cui unica eredità rimarchevole pare alla fine essere il suggerimento sull’uso del carattere Garamond per una recensione). Libero disprezza i luoghi (la città di Bari, i paesini e i loro abitanti), gli “espatriati” che incarnano i tipici miti e tic milanesi, sottacendo le mille umiliazioni quotidiane accettate pur di fregiarsi dei riflessi della Milano del marketing & management e dei fashion design da apericena. Dagli altri lo separa un eccessivo intellettualismo, presente anche nel rapporto conflittuale con la figura femminile, un territorio ostile di cui prendere le misure e i punti di repere come un cartografo che rilevi un’epidermide straniera, il pianeta ignoto e solidamente terreno della sua donna da conquistare, in un’alternanza insicura tra sudditanza e bisogno di stupire. Il libro vira e accelera improvvisamente – passando dal torpore irrisolto di due vite – quelle di Libero e di Plinio – intessute di sensi di colpa, di ambizioni letterarie elitarie e contemplative, di esitazioni, al sanguigno e improvviso irrompere della vita vera e violenta.

Come in un manga, sfoglio i singoli pezzi del primo album dei Bengala Fire “La Band” iniziando dalla fine per risalirlo all’inverso. Anche perché il pezzo 12 – Amelia (La Verità) (al violino il mitico Rodrigo D’Erasmo) è come una specie di pezzo post-credits o after-credits di un film in cui ci si riporta per mano a incontrare di nuovo i personaggi dei pezzi precedenti con qualche dettaglio inedito. Delicata e lunare, è la ballad che chiude questo album, ricucendo assieme con mano paziente il vortice di istantanee rappresentato dai brani contenuti nel disco e restituendo il suo stesso senso unificante, il concept di base che lo vede come un’antologia di vite attraversate alla Spoon River, che ha il gusto del percorso attraverso gli umani, del viaggio, delle prove esistenziali, come un romanzo di formazione in musica. In questa Odissea contemporanea tra il pentagramma e le le parole, possiamo indovinare i canti delle Sirene che ti promettono scorciatoie per successo a patto di venderti l’anima, di snaturare la tua impronta creativa, e gli intoppi del mestiere, le tappe fatte di sudore, talvolta di noia, di blocco e di fatica quotidiana, tappe pur sempre “abilitanti” e prove necessarie per raggiungere la propria genuina Itaca del cuore”..


#bengalafire #dischi #rock #banditaliane #laband #pioggiarossadischi

Album La Band – Bengala Fire

L’album La Band dei Bengala Fire

Quando inizieremo a prendere sul serio Alex Turner?


La versione di @Chinaskyact (per chi vuol seguirlo su Instagram)

Oggi che sono state preannunciate le due date italiane nel 2023 degli Arctic Monkeys vi condivido

questa profonda analisi, sotto forma di recensione, dell’ultimo disco da loro pubblicato.

“And if we guess who I’m pretending to be
Do we win a prize?
Having attempted twice, both incorrectly
Do we get a third try?”

Se lo zeitgeist sterminato di questa generazione (sterminata) fosse anche lontanamente lo stesso per cui è stato concepito The Car, l’ultima fatica degli Arctic Monkeys, l’attacco così elegantemente disarmato di There’d Better Be a Mirrorball ci farebbe saltare dalla sedia in preda a delle candide convulsioni, disfatti di ogni retorica compulsiva proveniente dal loro ultimo lavoro, eroticamente e intellettualmente pronti per intrattenere un ménage di trentasette minuti con l’unica band che nel rock degli ultimi vent’anni non è ancora una vuota e lacerata sagoma di se stessa. Questo disco, così come Tranquillity base, vive in assoluta contraddizione con ogni lavoro delle scimmie precedente a quest’ultimo, e non è semplicemente adatto a sopravvivere nella propria epoca. E per questo, come la storia ci insegna, meriterebbe la forca. Dunque se nel lontano 2018 Turner era accusato di escapismo interstellare dai suoi stessi fan, a distanza di quattro anni si è reso, come la più pura e svergognata ragione kantiana, giudice e imputato di se stesso, in un tribunale dove la critica e il pubblico sono più divisi che mai, in nome del classismo intellettuale e della rozzezza materiale che secondo i più antichi e radicati stereotipi musicali contraddistingue l’una dall’altro. 

È questo lo scenario su cui vengono poste le fondamenta di The Car: Alex Turner e la sua squadra sfidano le classifiche non più con un barocco cinematografico dal sentore post apocalittico, ma con una levigata profezia sartoriale fatta su misura per il falsetto e per l’orchestra, i veri protagonisti indiscussi di questo album. Così quei pochi secondi che precedono l’attacco di Mirrorball potrebbero redimere l’ascoltatore più tenace, l’ipocrita ascoltatore-lettore di Baudelaire, che in data ventidue ottobre 2022 sperava di riscattare se stesso, più che la sua band preferita, dal più grande passo falso che un gruppo ormai divenuto mainstream potesse mai compiere: rinnovarsi. È stato tanto difficile deglutire il bolo baroque pop del 2018, in cui Turner aveva già informato prima di tutto se stesso su quale fosse la direzione da seguire per non diventare un trentenne che insegue l’adolescente post punk del 2006, che dal canto suo, canto ingenuo proveniente da un volto invaso dall’acne e dalle turbe giovanili, ha spiazzato gli Oasis dal podio del record per album di debutto in Inghilterra venduto in minor tempo. Questa fu la consacrazione degli Arctic Monkeys: una stardom pressoché immediata gettata sulle spalle di quattro adolescenti che suonavano i pezzi degli Strokes in un garage fino a poco tempo prima, una condanna ad implodere in pochissimo tempo, come la definì la stampa britannica, oppure interpretata col segno di poi in ottica di più recenti fenomeni nostrani, una raccomandata per il successo mainstream, l’edonismo Hollywoodiano, il sesso droga rock n’ roll, ma un’evidentissima e a tratti ridicola carenza di materiale degno di reggere il confronto col tempo. 

Le possibilità erano queste due, abbattersi o essere abbattuti in un ciclico ed hegeliano rifacimento della storia musicale. Turner e soci hanno scelto una terza strada, o meglio, l’hanno percorsa nascondendosi. Difficile dire se quest’ultima rappresentasse la “strada meno battuta” di cui parlava Robert Frost, oppure fosse semplicemente un tentativo di dissimulazione, fatto sta che a distanza di quasi vent’anni siamo qui a discuterne, mentre Alex Turner si pasce dei suoi deliri compositivi adeguatamente provocatori da far rivoltare un’intera fandom. Ed è esattamente ciò che ci si doveva aspettare da un artista. Perlomeno, ciò che ci si dovrebbe aspettare da un artista. In questo senso non riesce difficile immaginarsi perché The Car abbia ricevuto recensioni positive dalla borghesia musicale (quella estera) e recensioni negative dal proletariato musicale (quello nostrano). L’unico scenario realmente apocalittico è quello in cui l’ascoltatore medio giace sul suo divano assuefatto all’abitudine, così come nella vita, anche in musica, e mai e poi idolatrerebbe un fenomeno che, per l’appunto, agisce fenomenicamente, cioè in maniera imprevedibile. Interessante riprendere qui le parole di Piero Scaruffi che risponde ad una lettera di un fan a proposito dell’idolatria che si verifica in musica, parlando nello specifico del grande David Bowie:

“Ce l’ho certamente con il fenomeno delle star, o, meglio, mi da` fastidio che il pubblico si lasci condizionare dalla stardom di questo o quello. Il marketing e` spesso quello che determina cio` che la gente consuma (e cio` che tanti miei lettori reputeranno “grande”, “importante”, “influente”, etc). Se Bowie non fosse diventato un personaggio da rotocalco, dubito che tu avresti perso tempo a scrivermi, cosi` come non mi scriverai mai a proposito di migliaia di musicisti che non sono altrettanto famosi, ma per i quali forse valgono le stesse considerazioni che fai per Bowie.”

È proprio da qui che ci si dovrebbe muovere per arrivare a considerazioni lirico – musicali sul disco che non siano state già vomitate virtualmente. 
The Car non è il miglior prodotto degli Arctic Monkeys, né da un punto di vista lirico che da un punto di vista musicale, ma contiene degli imprescindibili punti cardine che lo rendono un album che vale la pena di essere ascoltato, metabolizzato e deglutito dall’inizio alla fine più dal cervello che dallo stomaco. Musicalmente parlando siamo lontani anni luce dall’esordio (e chi l’avrebbe mai detto?) così come siamo sulla scia di Tranquillity Base, ma c’è da fare attenzione a questo tipo di retorica: l’oggetto di rinnovamento di quest’opera è spalmato equamente tra lirica e musica, non giace nell’atmosfera di straniamento che provocava il penultimo album, così come non si appoggia sull’edonismo pop rock del loro album più fortunato, ovvero AM del 2013. Si può sostenere che la vera innovazione di The Car consista nell’avere una sua propria identità non rintracciabile se non con lenti di ingrandimento in altri lavori del gruppo di Sheffield, nell’essere dunque un prodotto concepito a priori, in senso trascendentale, da ogni logica di mercato. È così che dal rock orchestrale di Mirrorball si giunge a al crescendo sfacciato e ingannevole di Body Paint, passando per uno dei brani più criptici mai scavati dalla penna di Alex turner, Sculpture of anything goes, che riesce nell’intento di disorientare ma non in quello di depurare, e attraversando la riuscita sperimentazione funk di 
I ain’t quite where I think I am, anche questo un pezzo che comunica disperatamente un qualche senso di straniamento che verrà approfondito liricamente. Oltre la traccia di apertura, Il grande punto d’arrivo di questo disco giace nella sensucht di Big Ideas, nella sua malinconia vezzeggiativa, nella quale solo la voce di Alex Turner avrebbe potuto rendere il pezzo quello che è all’orecchio dell’ ascoltatore più sensibile: una confessione. Il canto non è lancinante né teatrale come quello di Bowie (terribilmente paragonato più volte a Turner), semmai pianta le sue radici più nel crooning degli anni ‘50 che nel glam o nell’elettronica, e contiene in sé tutto ciò che basta per arrivare. La progressione si basa su una struttura 2-5-1 inusuale per una band che ha esordito con un album post punk al fulmicotone, l’assolo di chitarra è semplicemente cesellato nella sua brevità, come una benedizione non concessa seppur meritata per le orecchie dell’ascoltatore. Amen. “exquisitely tailored, masterfully crafted”, così ha parlato dell’album Andy Hill del magazine Clash. Ci fossero stati più brani di questa caratura, The Car sarebbe diventato il definitivo capolavoro delle scimmie e del songwriting di Turner. Fortunatamente la realtà è che l’essere umano è fallace tanto quanto è sinceramente abile di redimersi, e così come alcuni episodi minori dell’album potrebbero annegare le gemme nascoste di una scrittura evidentemente maturata, gli episodi migliori riportano a galla un gruppo che ha ancora molto da comunicare. Le reminiscenze acustiche e languide di Mr Schwartz strizzano l’occhio al jazz e alla bossa nova (stiamo ancora parlando degli Arctic monkeys di Arabella?) mentre la chiusura è affidata all’unico brano che avrebbe potuto mai mettere un punto a quest’album, Perfect Sense,  
la dolcezza intrinseca di chi ha scoperto che scrivere canzoni è un lavoro più violento se applicato direttamente sulla propria pelle, 
e dunque canta ancora cripticamente delle proprie ferite. Stiamo ascoltando esattamente “The Ballad of What Could Have Been”, la ballata di ciò che avrebbe potuto essere, come ci suggerisce furtivamente il testo di Big Ideas. 
Con immensa dolcezza si chiude la settima fatica degli Arctic monkeys, con immensa dolcezza Alex Turner vorrebbe chiudere musicalmente il cerchio. 

Se solo bastasse questo per considerare un album concluso. Se solo potessimo chiudere spotify e considerare il nostro lavoro compiuto, potessimo esentarci dai tormenti che la nostra ragione ci richiede, inevitabilmente, nella sua purezza. Bisogna scavare e bisogna farlo con l’orecchio di chi legge, per intravedere un che di significativo nelle liriche di quest’album. A primo impatto l’occhio più allenato potrebbe riconoscere in quel Mr Schwartz di cui si narra nella penultima traccia il Delmore Schwartz mentore di Lou Reed, poeta statunitense morto distrutto dalle proprie abitudini, al quale il testo per l’appunto corrisponde senza neanche troppe forzature:
purtroppo lo stesso Turner ha smentito la citazione in una recentissima intervista, ma quanto ci piacerebbe se non fosse così, quanto sarebbe bello se oggi qualcuno rendesse ancora omaggio a chi il rock l’ha suonato, scritto e cantato per davvero? Ma questa è indicibilmente un’altra storia. Matthew Strauss di Pitchfork in una stringata ma ben scritta recensione ha parlato di un tentativo disperato di sincerità da parte di Turner nell’esprimersi nascondendo abilmente versi di un candore quasi adolescenziale, come:

“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”

E ancora in Mr Schwartz:

“Come here and kiss me now 
before it gets too cute”

In un’intricata rete di sproloqui ai quali siamo già stati abituati con gli altri album. È così che Turner si perde in palle a specchio, spie non più ritirate in mattinate di caffè del Village, film lego-napoleonici, insomma in una pastura di deliri che potrebbero essere stati scritti da Dino Campana nella sua stanza del manicomio di Castel Pulci:

“It’s as if it’s the one line Turner truly wants to deliver and he’s crafted an entire song around it just to muster up the courage to sing it.”

Per l’appunto, come se Turner non avesse ancora il coraggio di dirci che soffre per amore come quando scriveva vent’anni fa. È questa componente lirica che trasforma l’artista in un trapezista al limite tra una sfacciata difficoltà poseur, intenta a nascondere mancanza di idee,
e una pura e tangibile genialità di scrittura.
A questo, come credo molti altri recensori, io non so dar risposta. Ne consegue che ciò su cui ci si può costruire un giudizio critico su questo ultimo lavoro degli Arctic Monkeys è soltanto ciò che vi si riesce ad estrapolare, sia dalla musica che dai testi, senza cadere nel gravissimo errore di definirla musica lounge. Musica di sottofondo, d’ascolto che non necessità della benché minima attenzione, come è stata già etichettata da illustri recensori. Vi si prega da questa analisi di non sfociare nella retorica, nel qualunquismo, nel disimpegno musicale. Che vi piaccia o meno, è evidente che l’unica richiesta di Alex Turner nello scrivere un album come The Car é quella di esser preso sul serio, e allora diventa naturale chiedersi, quand’è che inizieremo a farlo?

Bengala Fire – Bobby Eroina


… CONTINUA… Libere impressioni sul disco “La Band” dei Bengala Fire.

4 – Bobby Eroina:

Un pezzo rock tagliente, crudo, noir, intriso della forza esistenziale della lotta tra la tentazione della facile strada dell’annientamento, della narcotizzazione del dolore come ripulsa per quello che non riusciamo a cambiare, della discesa agli Inferi per non affrontare la disillusione nel guardare in faccia tutto quello che non ci piace e da combattere, per diventare adulti e altro da ciò che i nostri occhi e i nostri cuori disprezzano profondamente. Le parole – anche questo testo affronta un tema esistenziale che tocca ogni giovane, ieri come oggi – e la voce “spessa e sanguigna” di Mario non sono mai sprecate, toccano nel profondo e sanno restare essenziali, vere, non consolatorie, pur invitando a scegliere sempre la vita, la lotta, l’affermazione di sé. La scrittura musicale è avvolgente, fortemente ritmica, come ad esprimere il tumulto e la vertigine dell’abisso che potremmo scegliere da un attimo all’altro. Epiche e meravigliose le chitarre di Orso, Borto e Mario, potentissime, trascinanti, acide. La struttura è sorretta e architettonicamente cucita e temprata come su un’incudine, senza esondare mai dalla ricercata, misurata cura maniacale, dalle percussioni del solito Lex – un gigante che dà eleganza ed energia mentre lega e sottolinea i passaggi più densi e cupi del pezzo. Questo brano – a mio avviso – rappresenta ancora un grande salto in avanti di qualità, di creatività e di resa artistica complessiva di un gruppo che non smette mai di provare a proporre qualcosa di profondamente suo, senza inseguire mode e cliché.

Un sogno/incubo dark, gotico sull’illusione di scansare le difficoltà della vita scegliendo la dipendenza verso una sostanza o verso un rapporto affettivo altrettanto tossico.

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5 – Kerosene – Bengala Fire


… CONTINUA… libere impressioni sul disco “LA BAND” dei Bengala Fire

5 – Kerosene:

Questo è un pezzo che – pur essendo brevissimo come un lampo su un nero cielo notturno – per assonanze e costruzione mi conduce a sonorità appartenenti anche a colossi della musica italiana come i Subsonica. Rappresenta un po’ lo stadio evolutivo del suono attuale della band e delle tematiche dei testi, che spesso hanno il sapore di un’autoanalisi: qui si sente lo stridore (espresso dalle sonorità taglienti delle chitarre) della necessità di creare e comporre in quei momenti in cui si affaccia l’incubo – nella profonda solitudine del creativo – del foglio bianco… “In fondo vivo e muoio a caso”…

E l’utilizzo di analogie visive, come la personificazione dell’autore con il nero cormorano, sonnolento e appollaiato in attesa del momento dell’azione spinto solo improvvisamente dalla necessità di “cibarsi” (e per l’autore del fiammeggiare – “Sono un fuoco da accendere in un mare di kerosene” – della sua ispirazione “in cerca di orchidee”)… con il rischio di rifugiarsi in comode scuse autoassolutorie ne fa un testo che

riesce a supportare degnamente la sua realizzazione sonora.

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6 – Peggy


dall’album The Band dei Bengala Fire
… continua…
Riprendo, dopo un’interruzione dovuta allo scarso tempo disponibile, la lettura (esclusivamente personale e da non addetta ai lavori) del disco “The Band”, album d’esordio dei Bengala Fire.
Questo pezzo – posto proprio nell’area mediana dei brani proposti – si stacca in modo netto dal mood che unifica l’intera proposta. Ci fornisce un attimo più introspettivo, più rallentato, rarefatto al punto di parere della “stessa sostanza dei sogni” o di una temporanea interruzione del respiro, come un’immagine residuale che resti dopo un flash che si è scolpito nei ricordi: ci narra una storia stranita, ipnotica e suggestiva, ed è caratterizzato da una dolcezza estenuata che lambisce l’abbraccio emotivo e partecipe di una voce e una mente compositiva – quasi come un medium – in una personalità altrui borderline, irrisolta, che si fa attraversare dalla vita più che guidarla. In una sospensione sognante della volontà che ricorda una forma di dipendenza psichica emotiva, un amore dal gusto malato e distruttivo. E questo abbraccio, senza ergersi a giudicare, sa farlo la voce di Mario, con l’acutezza e profondità di chi si immedesimi in una sensibilità femminile, tanto da sfiorare nei toni e nella ritmica la voce da cantastorie la nostra “cantautora” d’eccellenza, Carmen Consoli.

Nel testo numerosi i riferimenti letterari a Dance dance dance di Murakami: l’uomo pecora, il Dolphin Hotel, la presenza di un’entità maligna, attrattiva e annientatrice.
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Boh amore – “La Band” Bengala Fire


… continua l’incontro a puntate, pezzo per pezzo, con l’album “La Band” dei #bengalafire
9 – Boh amore:
Tra toni chitarristici e ritmici esoticizzanti che mi fanno riaffiorare il gusto e gli echi di pezzi punk come quello dei Clash di Rock in the casbah, il pezzo si ritaglia un posto speciale nell’album come una pugnalata, tosto e ruvido, che fila dritto dall’inizio alla fine senza pause o abbassamenti di intensità e appare – nel tono sanguigno e spagnoleggiante delle chitarre – gemellarsi idealmente con “Matador” il pezzo che lo precede. Spicca qui particolarmente, in gran spolvero, la punteggiatura ritmica del basso di Borto @davideebortoletto
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10 Sogni chirali dall’album La Band Bengala Fire


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… continua…
10 – Sogni chirali:
L’espressione in musica e parole di una sorta di dissociazione tra pensieri disturbanti e forme distorte (come in una visione di sé anomala riflessa nello specchio, una specie di dismorfofobia estrema) di un mondo fatto di immagini ipnagogiche parallelo a quello della vita/realtà in un brano ruvido, tosto, senza “infiocchettature” di maniera, che si snoda in un contrappunto potente tra voce, batteria in gran spolvero e corde. Musicalmente un pezzo estremamente tirato con brevissimi rallentamenti che si avvitano su sé stessi accelerando poi sempre più incisivi guidati al finale con una chiusura secca, come in un film distopico a finale aperto.
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bengalafire #dischi #laband #rock #rockitaliano #band #gruppi #sognichirali #bengalafiretour2024 @pioggiarossadischi @believemusicitalia

Laura Cyberpunk- dall’album La Band dei Bengala Fire


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… Continua dal post precedente:
11 – Laura cyberpunk:
Il pezzo ci restituisce un mondo soffuso di irrealtà, un’atmosfera rarefatta, un ibrido ircocervo chimerico tra gioco elettronico e ambientazione cinematografica inquietante alla Laura (Palmer…) di Twin Peaks che ci fa partecipare nell’ascolto di un viaggio interiore e interstellare a un tempo tra sensazioni liminali e ambigue discordanze. La trama musicale è complessa, futuribile e psichedelica ma emotiva al tempo stesso. Parte da un’introduzione quasi sussurrata, onirica, con la voce di Mario che esplora più a fondo le doti multiverso della sua voce con un gioco delle ombre istrionico da incantatore, cui segue un’escalation tradotta musicalmente da un “ingresso in orbita” possente della strumentazione complessiva del gruppo e con una ripresa finale dal sapore rock progressive e un tessuto dance-elettronico degno dei migliori @kraftwerkofficial di mirabile fattura tra i riff e i virtuosismi delle corde e il potente e visionario protagonismo della batteria.

Ed infine? Si torna alla delicata melodia ipnotica e onirica che ha aperto il pezzo, in un loop da eterno ritorno.

Dodici minuti di un viaggio imperdibile in cuffia stereo che posso solo immaginare come vivere quale liberazione catartica nel mood travolgente di un live! La mia preferita tra i pezzi già noti assieme a Serenissima Malcontenta, Matador, Amaro mio.
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